Il rigetto dell’appello della Procura generale e la conferma dell’assoluzione pronunciata in primo grado per Emilio Primavera, all’epoca dei fatti direttore del Dipartimento di Protezione civile della Regione Abruzzo, sono stati chiesti oggi alla Corte d’appello di Perugia dai difensori dell’imputato nell’ambito del processo sul disastro dell’hotel Rigopiano, avvenuto il 18 gennaio 2017, quando una valanga travolse la struttura provocando 29 vittime
Primavera è imputato nell’appello bis disposto dopo l’annullamento con rinvio da parte della Cassazione, che aveva escluso alcune responsabilità ma chiesto un nuovo giudizio su specifiche posizioni, tra cui quella dell’ingegnere. A difenderlo gli avvocati Vittorio Manes e Augusto La Morgia. Secondo l’avvocato Manes “se anche l’ingegnere Primavera, in carica per circa 20 mesi, avesse rispettato i doveri del miglior agente modello possibile e si fosse attivato sin dal primo giorno per chiedere l’immediata realizzazione della carta Clpv, questa condotta non avrebbe comunque consentito di arrivare al risultato, nemmeno parziale, entro il gennaio 2017”. La difesa
ha infatti sostenuto che i periti hanno quantificato in quattro anni il tempo necessario per la sola fase preliminare, mentre la valanga colpì l’hotel di Farindola nel 2017. “I lavori sarebbero terminati, al più presto, oltre due anni e mezzo dopo la tragedia”, ha aggiunto Manes. Secondo i legali, non sarebbe quindi possibile “predicare alcuna prevedibilità dell’evento” con riferimento alla condotta di Primavera, “anche volendo ammettere che l’evento fosse prevedibile”.
La difesa del dirigente ha poi ricostruito il ruolo dell’ingegnere all’interno della struttura regionale: un dipartimento “di estrema complessità”, ha spiegato Manes, articolato in numerosi servizi e uffici e competente su
edilizia pubblica, gestione idrica, difesa del suolo, rischio idrogeologico, rifiuti, interventi di emergenza e valutazioni ambientali. “Il direttore di dipartimento è un uomo di coordinamento, non di impulso operativo diretto”, ha sottolineato, ricordando che la normativa attribuisce ai singoli dirigenti “piena autonomia funzionale”.
Sul tema centrale della mappatura valanghe, Manes ha contestato la lettura della Cassazione, secondo cui la Clpv, se redatta prima del 2017, avrebbe incluso l’area di Rigopiano. “La carta storica delle valanghe, l’unico documento allora esistente – ha detto -, non riportava affatto l’area dell’hotel. Come si può dire che, se fosse stata redatta allora la Clpv, avrebbe ricompreso proprio quel vallone e l’area di sedime dell’albergo?. È la trappola del senno di poi: dopo quel disastro, sarebbe stato impossibile per qualsiasi tecnico non inserire Rigopiano nella mappa. Ma prima dell’evento non vi era traccia di precedenti valanghe in quell’area”.
La valanga del 18 gennaio 2017, ha ricordato la difesa, fu il risultato di una “combinazione eccezionale di fattori
meteorologici, con accumuli di neve straordinari e movimenti atmosferici anomali”. Un evento dunque che, secondo gli avvocati, “non poteva essere previsto né prevenuto attraverso un’attività amministrativa che, anche se avviata nel 2015, non avrebbe mai potuto produrre effetti operativi prima del 2019”. “Il diritto non può essere piegato alla richiesta, pur comprensibile, di una giustizia sostanziale” ha detto l’avvocato Augusto La Morgia che ha definito il crollo dell’hotel “una tragedia irripetibile, inaccettabile in uno Stato di diritto”, esprimendo “solidarietà e dolore sincero” per le vittime e per i loro familiari. Ma ha sottolineato la necessità che la giustizia
attesa dall’opinione pubblica “coincida con l’applicazione delle norme”, evitando derive interpretative orientate a colmare un vuoto emotivo. “Se giustizia significa applicare il diritto – ha sostenuto -, allora sono pienamente d’accordo. Se invece significasse piegare le regole a un’esigenza morale, questa sarebbe una deriva che non posso condividere”. Il legale ha concluso ricordando che “29 morti sono una ferita che nessuna decisione potrà mai rimarginare”, ma ha sottointeso che il processo non può trasformarsi in uno strumento di compensazione morale.