Attesa per venerdì 19 dicembre la sentenza del processo in Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila per i tre palestinesi, tra cui Anan Yaeesh
Per Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Dogmosh, accusati di terrorismo internazionale, la Procura ha chiesto rispettivamente 12, 9 e 7 anni di reclusione. La sentenza dovrebbe arrivare venerdì 19 dopo l’intervento del collegio difensivo.
In vista dell’udienza conclusiva, i movimenti riuniti nelle sigle “Campagna Free Anan” e “Reti per la Palestina di Basilicata” hanno annunciato una mobilitazione a Melfi, dove Yaeesh è attualmente detenuto, a sostegno di “Anan e della resistenza palestinese”.
Tra gli slogan rilanciati: “Libertà per Anan, Ali e Mansour” e “La resistenza non si arresta”. Nella
nota diffusa dagli organizzatori si sostiene che il procedimento in corso all’Aquila abbia “una evidente natura politica” e che possa rappresentare “un pericoloso precedente” per chi esprime
solidarietà alla causa palestinese o si oppone alle politiche definite “guerrafondaie” del governo italiano, della Nato e dell’Ue.
Lo stesso testo evidenzia come gli anni richiesti dal pm per Anan sarebbero “molti di più” rispetto a quelli scontati in passato “nelle carceri sioniste” per fatti legati alla seconda Intifada. Il documento parla infine di un “clima di terrore generalizzato”, descrivendo l’intero sistema politico ed economico come “complice attivo del genocidio e dell’occupazione sionista” e indica il Ddl Gasparri come “ulteriore elemento di preoccupazione”.
Anan Yaeesh ha trentasette anni e vive in Italia dal 2017, dopo le torture subite nella Cisgiordania occupata dai coloni israeliani. Da gennaio del 2024 è in prigione, il tribunale di Tel Aviv avrebbe voluto procedere contro di lui per terrorismo, ma l’estradizione è stata negata dai giudici italiani per il rischio concreto, una volta tornato in Israele, di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Il processo si svolge in Corte d’assise a L’Aquila, città dove viveva Anan Yaeesh al momento dell’arresto.
«Non ho un passato, se non alcuni ricordi e foto di amici uccisi per mano dell’occupazione, e di un’amica giustiziata a sangue freddo davanti ai miei occhi – ha detto Yaeesh in aula lo scorso marzo -. Ho una famiglia che non vedo da anni e due genitori morti senza realizzare il loro sogno di rivederci un’ultima volta. Ho una patria devastata, un popolo sfollato. Persino le nostre case sono state demolite dai bulldozer israeliani». Per questo, ha spiegato alla corte, «mi vergogno di cercare l’assoluzione da accuse che per me rappresentano un motivo di onore. Non voglio difendermi dall’accusa di avere dei diritti e di averli rivendicati, o di aver tentato di liberare la mia gente e il mio paese dall’oppressione coloniale».
Yaeesh infatti ha fatto parte delle Brigate di resistenza e di risposta rapida presenti in Cisgiordania, un’appartenenza peraltro nota alle autorità italiane che comunque gli rilasciarono il permesso di soggiorno e la protezione speciale, visto che il diritto internazionale riconosce la legittimità della resistenza palestinese. Il procedimento penale che si sta celebrando a L’Aquila riguarda fatti che sarebbero stati commessi in Palestina.
“Come noto, in Cisgiordania non è la resistenza a essere illegale ma, pacificamente dal 1967, tale è la condotta di quello Stato di Israele che, pur condannato dal consesso giuridico mondiale a lasciare i territori occupati illegalmente, insiste nel procrastinare indisturbato la sua politica di espansione. Il protagonista imputato Anan è un politico/militare assai noto in Cisgiordania ed eroe per quella rete resistente, tanto da essere assunto a figura principale anche all’interno di canzoni popolari” si legge sul sito dinamopress.it in un articolo a firma di Giuseppe Romano.
Il racconto prosegue e vede Anan “assistere a 14 anni all’omicidio brutale della sua fidanzata e restare per 10 giorni attaccato alla tomba della ragazza, poi decidere, come tanti giovani palestinesi, di aderire alla lotta politico-militare nelle file di Fatah contro il governo nemico. Ottiene visibilità tanto da entrare nella guardia personale del presidente Arafat e venire da lui premiato, giovanissimo, con un titolo onorifico. Entra nei servizi segreti palestinesi occupandosi di sicurezza interna e diventa tra i principali nemici in loco dello stato occupante. Per evitarne l‘uccisone viene consegnato al carcere di Gerico sotto la supervisione di Stati Uniti, Inghilterra, Egitto e Giordania che ne controllano la detenzione. Nel 2006 elicotteri dell’esercito israeliano si alzano in volo su Gerico e la bombardano; Anan riesce a salvarsi e fuggire. Torna nella propria città dove cade nella trappola di un conoscente, spia dei servizi israeliani, che aprono il fuoco in un bar ferendo lui e uccidendo un amico. Anan si salva, sventa un altro tentativo di uccisone in ospedale. Dopo tre anni di carcere in 18 prigioni subendo torture, è stato scarcerato nel 2010 e continua la sua attività politica e studia scienze politiche. Nel 2013, vessato dalle continue pressioni anche sulla sua famiglia, decide di trasferirsi in Europa. Vive in Norvegia e Svezia per poi spostarsi in Italia dove gestisce un ristorante a Mestre. Da ultimo si trasferisce a L’Aquila”…
La notizie sulla vita e sull’attivismo di Anan emergono dalle sue stesse dichiarazioni, rese in sede di richiesta di protezione internazionale alla commissione norvegese prima e italiana successivamente.
