L’ergastolo no, ma trent’anni glieli hanno dati a Massimo Ciarelli, comprensivi dello sconto da rito abbreviato. La morte dell’ultrà del Pescara Domenico Rigante, almeno per questo primo step giudiziario, ha nomi, cognomi e, soprattutto, aggettivi qualificativi: omicidio volontario premeditato. In appello si vedrà. Nel tardo pomeriggio di ieri, dopo aver ripercorso i fatti di quel primo maggio del 2012, il gup Sarandrea ha optato per la condanna di Massimo Ciarelli, ma non come unico responsabile. Del commando che fece irruzione nella casa del giovane tifoso facevano parte anche altri familiari di Massimo Ciarelli: Angelo, Domenico, Antonio e Luigi Ciarelli, i quali però avrebbero premeditato unicamente il pestaggio dell’ultrà, mentre Massimo sarebbe arrivato in via Polacchi con la pistola già pronta ad uccidere. Per questa ragione il gup Sarandrea ha condannato quest’ultimo a trent’anni e gli altri quattro a 19 anni e 4 mesi. Neanche un nome altisonante e televisivo come quello dell’avvocato Taormina ha sgomberato il campo dalle aggravanti. Una vicenda nata male – conflitti, botte e vendette – e finita peggio, con una morte assurda, una condanna pesante, due famiglie rovinate e la bagarre scatenata dai rom alla lettura della sentenza: “Razzisti, Hitler è morto” hanno gridato alcune donne appartenenti alla famiglia degli imputati. Laconico il commento del padre di Domenico, Pasquale Rigante: “Domenico non ce lo ridarà nessuno, e abbiamo dovuto sentire anche le calunnie su mio figlio”.
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