L’Aquila, ricostruzione pubblica al palo: la mappa della grande incompiuta

Decine di monumenti, palazzi, chiese, scuole ancora da ricostruire; un patrimonio pubblico dal valore storico e culturale inestimabile, che alla ricostruzione costa circa 2 miliardi e 300 milioni di euro, che da 10 anni attende di essere ricostruito.

Sono gli edifici – laici o religiosi – di proprietà pubblica (Provincia, Comune, Mibac, Regione, Università, Ater, Curia, Asl) che rappresentano la grande incognita della ricostruzione dell’Aquila. Ricostruzione che, secondo i dati da poco aggiornati dall’Ufficio speciale dell’Aquila, ha superato per quanto riguarda la parte privata, lo scoglio del 75%. Percentuale dalla quale la ricostruzione pubblica è lontana: gli edifici recuperati si contano sulle dita delle mani.

MAPPA ED ELENCO EDIFICI PUBBLICI DELL’AQUILA (Realizzata da Rete8 da varie fonti)

Dopo 10 anni dal terremoto un insuccesso assoluto? Di chi è la colpa? In molti additano la burocrazia, le procedure farraginose e ripetitive per gli appalti pubblici , un codice degli appalti riformato dal Governo Renzi che ingessa l’avvio dei lavori con l’intento nobile sicuramente, di allontanare le infiltrazioni mafiose e le illegalità. Fatto sta che a oggi i cantieri pubblici conclusi all’Aquila sono pochi esempi: Palazzo Camponeschi, la sede regionale dell’Inps, la chiesa di San Silvestro, palazzo Ardinghelli e pochissimi altri. E intanto impressionano i numeri: a fronte del costo complessivo di oltre 2,3 miliardi di euro (di cui per messa in sicurezza sono stimati 317.6 milioni), l’importo finanziato è di 2.2 miliardi circa (di cui per messa in sicurezza 317.129.789,00) e quello erogato (che fa ben intendere la mole dei cantieri aperti) è di appena la metà: 1.4 miliardi di euro (di cui per messa in sicurezza 268.306.783,00). Nella mappa riprodotta da Rete8 si vede chiaramente la situazione del centro storico dell’Aquila: incompleti, o mai partiti, ci sono decine di edifici. Tra cui la chiesa del Duomo, il palazzo del Governo, l’aggregato provinciale che comprende la Biblioteca provinciale e il Convitto nazionale sotto ai portici dei Quattro Cantoni, la scuola De Amicis, il complesso di Collemaggio (quello a destra della Basilica invece splendidamente recuperata, da un privato come l’Eni, è bene sottolineare), l’ex ospedale San Salvatore, gli alloggi per l’edilizia residenziale pubblica Ater, il cinema Massimo, la Chiesa di San Marco e tanti, tanti altri ancora.

foto di Marianna Gianforte

Tutte opere che, rimanendo bloccate, impediscono il recupero d’intere porzioni di città, lasciate in balia del degrado e del rischio di crolli (anche perché i puntellamenti raramente vengono sottoposti a manutenzione da parte dei soggetti attuatori e diventano essi stessi fonte di pericolo), impedendo inoltre alla ricostruzione privata di procedere e quindi ai cittadini di rientrare nelle loro case. Tra i soggetti attuatori, ci sono la Gran Sasso Acqua, l’Ater, il Comune, il Dipartimento di Protezione civile, il Mibac, la Provincia e la Regione, il Provveditorato alle OoPP, il Consiglio regionale e la Giunta regionale e, infine, l’Azienda per il diritto allo studio universitario. La fetta più grande degli interventi spetta nell’ordine all’Ater (196 interventi), al Comune (135), al Mibac (124), al Provveditorato alle Opere pubbliche (171), anche se il più oneroso è quello della Protezione civile che con un solo intervento assorbe 814 milioni: il Progetto Case.

La vera sfida della rinascita dell’Aquila sta tutta qui: nell’avviare a pieno regime, una volte per tutte, la ricostruzione pubblica. Che cosa manca? Sicuramente un po’ di coraggio e di operatività da parte degli enti e dei soggetti attuatori; forse non c’è abbastanza personale negli uffici. Ma poi, occorre ben altro: lo Stato, i Governi, devono rimettere mano – e subito – alle procedure. Non è possibile (e la storia sinora lo ha dimostrato), portare avanti la ricostruzione ( o qualsiasi altro intervento) in zone colpite da eventi nefasti con leggi e procedure ordinarie. A meno che di quelle realtà non si voglia la morte certa.

Al di là dei confini della città, ci sono decine di frazioni e Comuni dove lo spopolamento e l’impoverimento economico e sociale sono già una triste realtà. Ed è qui che i legislatori e gli amministratori hanno un’immensa responsabilità. Se è vero che mettere in moto le opere pubbliche vuol dire produrre Pil, allora è questa la strada: superare l’ordinarietà del Codice degli appalti, promuovere regole esemplificative della sezione dedicata alla “pubblicità” degli appalti, procedere sulla direzione tracciata dal decreto “Sblocca cantieri” che permette procedure snelle fino alla soglia comunitaria. Infine: l’inappellabilità della gara d’appalto, ossia impedire i ricorsi al Tar intentati con lo scopo di fare ricorsi strumentali e ritardare l’avvio dei cantieri.

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