L’Aquila, ricostruzione: la lunga agonia di chiese e palazzi pubblici

Quando è crollato il tetto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami ai Fori imperiali a Roma, il 30 agosto scorso, il ministro della Cultura Bonisoli ha detto: “Ringrazio Dio per come è finita, perché poteva andare molto, molto peggio”. Una frase che racchiude il senso del metodo tutto italiano di affrontare la messa in sicurezza, il recupero, il restauro dei beni pubblici italiani.

Ossia, senza strategia e pianificazione, senza soldi e personale negli uffici ministeriali periferici, del Mibac e del Provveditorato alle Opere pubbliche, continuando a ringraziare il cielo per aver risparmiato morti e danni. Succede così in condizioni normali, figuriamoci  cosa succede quando gli immobili pubblici cadono in territorio colpiti da calamità, come può essere un terremoto.

Succede più o meno come accade all’Aquila, città capoluogo terremotata da dieci anni, definita uno dei più grandi cantieri d’Europa a cielo aperto, dove sono piovuti miliardi di euro e ancora molti ne pioveranno per una ricostruzione ancora in divenire e che ha visto stanziare dal Governo Renzi nella legge di Bilancio del 2015 circa 5 miliardi e 100 milioni di euro. Una città in cui, però, la differenza della velocità con cui procedono ricostruzione privata e ricostruzione pubblica è uno schiaffo a un Paese moderno: a buon punto quella privata, all’anno zero quella degli immobili pubblici a tutti i livelli.

Una situazione grave per la ripresa urbana e sociale dell’Aquila, considerando che il 35% del suo centro storico è costituito da edifici pubblici. Tra cui sono le chiese a gridare vendetta: tantissimi gli edifici di culto sventrati, danneggiati, puntellati, lasciati in balia dell’incuria e del maltempo dal 2009 e, soprattutto pericolosi per le persone che piano piano ripopolano il centro. Sono fruibili 150 chiese su 426 aperte prima del sisma, di cui 16 quelle disponibili in centro storico su 80 presenti. Praticamente per i fedeli aquilani del centro e delle frazioni non ci sono luoghi di culto in cui ritrovarsi per le attività pastorali.

L’esempio più eclatante è la cattedrale di San Massimo, il Duomo, elemento identitario della città: i suoi lavori,  annunciati puntualmente ogni anno, non sono mai partiti. L’ultimo annuncio dato dalla Soprintendenza parlava di avvio sicuro e certissimo entro giugno 2018. Siamo a settembre e non è stata ancora avviata la gara d’appalto per l’affidamento dei lavori, anche se a ridosso della Perdonanza sono spuntate delle paratie poste a protezione per il rischio di crollo di parti e anticamera dell’avvio dei lavori. Paratie prese affittate ad almeno 200mila euro. Ed è solo il primo esempio.

IL SERVIZIO DEL TG8:

In una città capoluogo, con una cospicua presenza di immobili istituzionali, non è comprensibile che lo Stato non si faccia promotore di procedure straordinarie per consentirne il recupero: sono beni pubblici che dovrebbero oltre che tenere insieme il tessuto istituzionale e sociale di una città, e ricostruire la sua identità storica, anche garantire l’incolumità delle persone; se un immobile non viene recuperato, non possono esserlo nemmeno quelli privati spesso adiacenti o vicini. Ma dovrebbe essere una spinta morale se non un dovere per uno Stato garantire la sopravvivenza di un tessuto cittadino a partire dai suoi luoghi di socialità e di vita istituzionale e pubblica. Il paradosso è che i soldi ci sono, sono tanti, e che la maggior parte dei recuperi è finanziato con delibera Cipe. Ma se si prosegue con procedure ordinarie, soggette a lungaggini assurde e a ricorsi al Tar, come si può pensare di far rinascere una città che è il quinto centro storico in Italia?

Senza dimenticare che lasciando logorare gli immobili dilaga anche il degrado, la sporcizia, la precarietà degli edifici, cedono i puntellamenti e sarà sempre più complesso recuperare. Altro punto di domanda: chi deve fare la manutenzione dei puntellamenti e dei ponteggi che nel frattempo sono lì a reggere palazzi e chiese da quasi 10 anni? Gli enti proprietari o gli esecutori di quei lavori? E dove si trovano i soldi? L’eterno dilemma dell’essere e il non essere, del cane che si morde la coda. E infine: niente manutenzioni, niente sicurezza. Di qui il pericolo dei crolli, come è avvenuto per il ponte di Genova o la chiesa di Roma.

C’è da ricordare che all’Aquila la legge 77 post sisma stabilì che le chiese venissero “scorporate” dalla proprietà privata della Curia ed entrassero sotto la competenza (per il recupero) del Mibac (all’epoca Mibact), che però a parte lacciuoli normativi, ha anche poco personale per seguire una mole assurda di lavoro. E così, tornando al Duomo, si assiste alla scena desolante e inaccettabile di un intero aggregato (quello di Curia, episcopio e parte residenziale) cantierizzato e con lavori in corso, e la chiesa che resta enorme buco nero.

Ma la cattedrale di San Massimo è soltanto un esempio: nelle stesse condizioni ci sono palazzo Carli (dell’università), il palazzo di Santa Maria dei Raccomandati (lungo Corso Umberto e di proprietà del Comune), l’ex facoltà di Medicina in via Verdi (della Provincia), l’ex Camera di Commercio lungo Corso Federico II, l’ex Inam (della Asl), l’ex Liceo Scientifico di via Maiella, l’ex Prefettura e teatro Sant’Agostino di piazza, il distretto della scuola De Amicis e tutte le scuole ferme al palo, come anche le chiese. Oltre a San Massimo, per esempio: Santa Maria Paganica, San Biagio, San Marciano, San Francesco Di Paola a via XX Settembre, Santa Maria di Roio, Confraternita del Carmine, le chiese di Monticchio e Pianola, a Bagno la chiesa di San Raniero, la chiesa di San Paolo, il Santuario Di Roio e San Marciano Di Roio. A Bazzano lavori iniziati e mai conclusi. Tra i cantieri in corso: il Castello, palazzo Margherita, il Teatro comunale, il San Filippo.