Diffamazione: Pettinari condannato a risarcire D’Alfonso

Il tribunale civile di Pescara ha condannato il consigliere regionale pentastellato, Domenico Pettinari, a risarcire l’ex governatore Luciano D’Alfonso con 50 mila euro, nell’ambito della causa di risarcimento civile per diffamazione, intentata dall’ex presidente della Regione.

La vicenda è partita dalla denuncia che il consigliere del M5s fece relativamente all’acquisto da parte della sanità abruzzese, di cui al tempo D’Alfonso era anche commissario ad acta, di una palazzina rilevata qualche anno fa da un privato per una somma di 900 mila euro, poi rivenduta dopo pochi anni, alla Asl di Pescara per 2 milioni e 800 mila euro.

Ora il tribunale civile di Pescara ha condannato Domenico Pettinari, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, a un risarcimento danni di 50 mila euro nei confronti del senatore ed ex presidente della giunta regionale abruzzese, Luciano D’Alfonso, e al pagamento delle spese legali. La condanna è stata emessa dal giudice Marco Bortone.

D’Alfonso aveva avanzato una richiesta di risarcimento pari a 200 mila euro, ritenendosi diffamato dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa da Pettinari, in seguito all’interpellanza che l’esponente del M5s presentò in consiglio regionale nell’aprile 2015. Pettinari chiedeva conto a D’Alfonso dei motivi per i quali non era stato bloccato per tempo l’acquisto del palazzo della Asl di via Rigopiano a Pescara, che, a giudizio del consigliere pentastellato, sarebbe stato pagato il triplo del valore effettivo.

Secondo il giudice le affermazioni di Pettinari, riportate dagli organi di stampa, “non appaiono pertinenti allo scopo informativo da conseguire, improntate a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e a leale chiarezza e corretta manifestazione delle proprie opinioni”.

Nella sentenza viene messo in luce che “gli argomenti usati non possono essere considerati mera critica della condotta dell’avversario politico, apparendo invece essere stati mirati soltanto a evocare l’indegnità della sua persona e delle modalità di esercizio delle sue funzioni pubbliche”.