9 ottobre 1963: la tragedia del Vajont e i legami con l’Abruzzo

Si avvicina il 55° anniversario della tragedia del Vajont: il 9 ottobre 1963 la montagna scivolò sulla diga, alla cui realizzazione contribuirono tanti minatori abruzzesi, e sull’abitato della zona. Il processo trasferito da Belluno a L’Aquila.

Il 9 ottobre del 1963 un pezzo del Monte Toc entra senza bussare nella diga del Vajont appena costruita. Del resto i valligiani lo sanno che quel nome, Toc, sta per toccato, marcio, e quindi pronto a disfarsi. Quando la montagna frana sulla diga dal bacino artificiale parte un’ondata gigantesca – ma è solo la prima – che si porta via intere frazioni e le vite umane che le popolavano. La seconda onda è ancora peggio della prima: i milioni di metri cubi di acqua scavalcano la diga e si riversano nella gola del torrente Vajont, fino a raggiungere Longarone e i paesi vicini, portandosi via altre vite umane. L’acqua riversatasi nel Piave provoca un’enorme piena. Tutt’intorno, dove prima torreggiavano i piccoli borghi, galleggiano solo fango e detriti. Alla fine della tragedia la triste contabilità dei morti arriverà a segnarne 2000.

Esiste un doppio legame tra il disastro del Vajont e l’Abruzzo, un prima e un dopo che partono da qui e qui ritornano, in un certo senso. Sì perché alla costruzione dell’invaso artificiale contribuirono anche quelli che vennero chiamati gli acrobati delle dighe, operai in grado di lavorare appesi sulla roccia ad altezze vertiginose. La gran parte di questi acrobati delle dighe in azione nel Vajont arrivava proprio dall’Abruzzo, da quella stessa terra che anni prima aveva offerto il proprio tributo di vita e di morte alle miniere di Marcinelle.

“La diga del Vajount l’abbiamo fatta noi” ricorda un cittadino di Lettomanoppello in un bel documentario di Rai Storia sulla diga del Vajont. E l’avevano fatta bene, s’intende, il progetto ingegneristico seguiva le tecniche più innovative del tempo. A difettare invece furono gli studi sulla stabilità del Monte Toc, quelli sì fatti male. E’ ancora un ex lavoratore della diga a ricordare, nel documentario Rai Storia, che dalla provincia pescarese arrivarono nel bellunese un centinaio di minatori in grado di fare esplodere cariche a 300 metri di altezza (https://www.youtube.com/watch?v=PYUtwOAItRg).

Il secondo nodo che stringe la tragedia del Vajont all’Abruzzo è giudiziario: è a L’Aquila che, alla fine degli anni ’70, si svolsero i primi processi ai responsabili del disastro.

Dopo alterne vicende, a poco più di sette anni dalla tragedia, 14 giorni prima della prescrizione, il processo Vajont terminò con condanne giudicate insignificanti se paragonate alla portata del disastro. L’intera vicenda è ben ricostruita in un articolo del Corriere delle Alpi, qui di seguito i punti salienti:

“La giustizia ha riconosciuto la prevedibilità dell’evento: la Sade (poi Enel) sapeva. E, cosa rarissima in Italia, ha riconosciuto responsabile, tra gli altri, anche lo Stato…

Il 10 maggio del ’68 la Cassazione trasferisce il processo a L’Aquila per legittima suspicione. A Belluno la gente è troppo coinvolta, potrebbero nascere dei disordini e il processo rischierebbe di non svolgersi serenamente. Per i sopravvissuti e i parenti delle vittime, la decisione della Cassazione è un’offesa e un’altra ferita. Senza contare che da Longarone all’Aquila sono quasi 700 chilometri. Secondo il giudice Fabbri, invece, il trasferimento si rivela una cosa positiva, perché sottrae il procedimento ai condizionamenti dei centri di potere veneti. Lo Stato, nel processo Vajont, si trova in una posizione difficile, perché è insieme parte civile (chiede cento miliardi di danni agli imputati Enel e Sade), giudice e imputato.

Lo Stato, nel processo Vajont, si trova in una posizione difficile, perché è insieme parte civile (chiede cento miliardi di danni agli imputati Enel e Sade), giudice e imputato.

L’Enel, danneggiato o imputato? L’Enel, in teoria il maggiore danneggiato (dal punto di vista patrimoniale) dal disastro del Vajont, si comporta quasi da subito esclusivamente come imputato.

Pochi giorni dopo il 9 ottobre contesta alla Sade di avergli venduto un impianto qualificato come “bene elettrico” (capace quindi di produrre energia) che si è invece rivelato inservibile. L’istruttoria sulla presunta truffa si conclude però con un’archiviazione.

Dopo questa prima reazione, l’Enel cambia completamente atteggiamento: non solo finisce di pagare gli indennizzi per la nazionalizzazione all’ex Sade (che nel frattempo è diventata Montedison), ma non si inserisce nemmeno nei procedimenti penali e poi civili come parte civile.

Nel 1967, infine, propone ai sopravvissuti del Vajont una transazione da dieci miliardi di lire, purché il 90% di loro si ritiri dal processo in cui l’Enel compare come imputato. Insieme all’ex Sade: ma la Montedison non intende contribuire economicamente alla transazione.

La transazione. Tre milioni di lire per la perdita di un coniuge. Un milione e mezzo per il figlio, 800.000 lire per il fratello o la sorella conviventi. E così via. Mancano quattro anni alla prescrizione e non c’è ancora nemmeno la sentenza di primo grado.La ricostruzione va a rilento, i soldi dallo Stato tardano ad arrivare. Uno alla volta, firmano quasi tutti. In Cassazione, di lì a quattro anni, restano meno di cento parti civili. All’inizio, erano in quattromila. “Ho conosciuto persone – ricorda Mario Passi – inviato dell’Unità al processo che per inerzia hanno firmato la transazione con l’Enel ma non hanno mai voluto toccare una sola lira del risarcimento depositato in banca a loro nome”.

Primo grado: un giorno di carcere per ogni morto. La sentenza di primo grado, il 17 dicembre 1969, è uno schiaffo ai sopravvissuti del Vajont. “Un giorno di carcere per ogni morto”, protestano. La prevedibilità della frana non viene riconosciuta, sono esclusi i reati di frana e inondazione. L’ex Sade (ora Montedison) è esonerata da ogni responsabilità civile in relazione ai danni causati dall’ondata, e così lo Stato: l’onere ricade tutto sull’Enel. Le condanne (sei anni di reclusione ai tre imputati principali, Alberico Biadene, Curzio Batini eAlmo Violin) si riferiscono in sostanza solo al mancato allarme. Stando alla sentenza di primo grado, secondo Odoardo Ascari, avvocato di parte civile, non spettava alcun risarcimento “né ai privati, per i danni alle cose, né allo Stato, per le opere pubbliche, né al comune di Longarone”.

Secondo grado: il disastro era prevedibile. Il processo di appello, un anno dopo, ribalta la sentenza di primo grado. Commina pene lievi (Alberico Biadene viene condannato a sei anni, Francesco Sensidoni a quattro anni e sei mesi), ma riconosce la responsabilità degli imputati per i reati di frana, inondazione e omicidi colposi. Stabilisce la prevedibilità del disastro. Sancisce la responsabilità dei manager sia prima che dopo il passaggio della diga dalla Sade all’Enel e la connivenza dei responsabili degli apparati dello Stato: con tutte le conseguenze che ciò comporta, a livello di responsabilità civili.

La sentenza definitiva. La sentenza di Cassazione arriva 14 giorni prima della prescrizione, il 25 marzo 1971. Condanna Alberico Biadene (dipendente Enel-Sade) a cinque anni e Francesco Sensidoni (dipendente del ministero dei Lavori Pubblici) a tre anni e otto mesi, in quanto responsabili del reato di inondazione – frana compresa – e omicidi. Sia Biadene che Sensidoni godranno di un condono di tre anni.

In definitiva: quella del Vajont non è stata una tragedia naturale, ma un disastro. Provocato dall’uomo, quindi – anche se colposo. La responsabilità del disastro ricade su chi ha gestito il serbatoio e su chi avrebbe dovuto vigilare, e non l’ha fatto.

Enel e Montedison (ex Sade) vengono estromesse dal giudizio penale in sede d’appello: la valutazione delle loro responsabilità viene rimessa al giudizio civile, che le condannerà in solido al risarcimento dei danni”. (http://temi.repubblica.it/corrierealpi-diga-del-vajont-1963-2013-il-cinquantenario/pene-lievi-ma-riconoscimento-delle-colpe-il-processo-vajont/)

La diga del Vajont, oggi in disuso, è stata progettata dal 1926 al 1958 dall’ingegner Carlo Semenza; fu costruita tra il 1957 e il 1960 nel territorio del comune di Erto e Casso, nella regione Friuli-Venezia Giulia, lungo il corso del torrente Vajont, nelle Prealpi bellunesi.

Il servizio del Tg8