Esplosione gasdotto, 21 richieste di rinvio a giudizio

Esplosione gasdotto, 21 richieste di rinvio a giudizio. La Procura di Teramo chiede il processo per 21 indagati. Disastro colposo le accuse nei confronti dei responsabili Snam Rete Gas. Il drammatico fatto di cronaca è accaduto, come si ricorderà, il 6 marzo del 2015.

Con la richiesta di rinvio a giudizio per disastro colposo per 21 persone – responsabili tecnici e amministrativi di Snam Rete Gas – la Procura di Teramo mette un primo punto fermo nell’inchiesta sull’esplosione di un tratto del metanodotto Ravenna-Chieti avvenuta a Pineto il 6 marzo 2015, che causò ingenti danni ad abitazioni, auto, coltivazioni e a un’intera area boschiva. Nel corso di una lunga e minuziosa indagine investigatori e inquirenti hanno analizzato tutta la documentazione amministrativa e tecnica relativa a progettazione, posa in opera, manutenzione e monitoraggio del tratto di metanodotto esploso, della sovrastante rete elettrica e delle abitazioni interessate dall’evento. A un collegio di esperti sono stati affidati gli accertamenti tecnici volti a verificare se all’origine del disastro ci fossero esclusivamente fenomeni naturali o condotte negligenti da parte delle relative società. A seguito di tali accertamenti la Procura aveva chiesto l’archiviazione per metà degli indagati, tutti riconducibili a Enel e Snam Spa, a carico dei quali non erano state ravvisate responsabilità. Adesso arriva la richiesta di rinvio a giudizio per 21 dipendenti di Snam Rete Gas, sulla cui posizione sarà adesso chiamato a esprimersi il gup. Sotto accusa, da quanto si apprende, le modalità con cui Snam Rete Gas avrebbe realizzato alcuni lavori di messa in sicurezza della condotta interessata. Fin dal 2008, infatti, le costanti attività di monitoraggio svolte dalla società sulle tubature avrebbero messo in luce come la condotta, nel tratto successivamente esploso, si fosse alzata di circa 26 centimetri rispetto al 2001. Un aspetto che, per l’accusa, avrebbe dunque evidenziato uno stato di tensione del tubo legato ai movimenti del terreno (in un’area classificata a moderato rischio idrogeologico) e rispetto al quale l’azienda aveva programmato tutta una serie di interventi. Interventi indicati come realizzati nell’estate del 2010, con l’obiettivo di ridurre lo stato di tensione ma che, all’atto pratico, sarebbero stati fatti in maniera difforme a quanto preventivato. Sotto accusa, in particolare, la mancata realizzazione di un sistema di drenaggio delle acque, giustificata con il fatto che all’atto degli scavi, nel mese di agosto, non fosse stata rilevata la presenza di acqua. Ma non solo. Perché, secondo quanto emerso nel corso delle indagini, nonostante già nel 2008 fossero state evidenziate due deformazioni della condotta, una in corrispondenza del tratto esploso e l’altra in corrispondenza del tratto dove si verificò la frana del 6 marzo, le corde estensimetriche che avrebbero dovuto consentire un attento monitoraggio della situazione rispetto ai movimenti del terreno, sarebbero state posizionate in maniera errata, così come secondo i consulenti della Procura sarebbe stata valutata in maniera sbagliata la natura della deformazione scoperta lungo il tratto interessato. Infine, secondo l’accusa, sarebbe mancata anche la predisposizione, da parte dell’azienda, di ulteriori misure atte a controllare i movimenti del terreno come l’installazione dei piezometri. Aspetti che, in occasione della frana di marzo 2015, avrebbe portato all’esplosione del tratto interessato.